lunedì 8 maggio 2017

Omaggio a Ivano Porpora

IL RIORDINA PAROLE

C’era un volta un Reame Vicinissimo di cui però non parleremo.
“Allora perché ce lo hai detto?” mi chiederete voi, perché serviva per dire che c’era una volta un Reame Lontanissimo Dal Reame Vicinissimo, ma lontanissimo, così lontanissimo che se ti trovavi nel Reame Vicinissimo e chiedevi:
“mi scusi mi potrebbe dire la strada per il Reame Lontanissimo Dal Reame Vicinissimo?” e quello ti rispondeva:
“di là!”
se ti giravi e andavi nella direzione opposta molto probabilmente saresti arrivato prima di quello che seguiva l’indicazione.
Comunque in questo Reame Lontanissimo Dal Reame Vicinissimo c’era un uomo bello, ma bello, ma così bello che per immaginarvelo dovreste figurarvi un uomo grosso, senza capelli e con la barba folta.
Come dite? Non vi sembra la descrizione di un uomo bello? In effetti potreste aver ragione, per essere veramente bello probabilmente dovreste immaginatevelo con lunghi dreads rossi, in questo modo non potrebbe che essere il più bello di tutti. Ma lui non li aveva, era pelato, barbuto e grosso. Si chiamava Ivano o meglio lui non si chiamava mai, tranne forse qualche volta in cui era particolarmente distratto e allora si auto chiamava per darsi una svegliata, normalmente erano gli altri a chiamarlo così.
Quest’uomo faceva un lavoro stranissimo, riordinava le parole. Esatto. Quando da bambino i suoi genitori gli avevano chiesto cosa volesse fare di lavoro lui rispose senza indugi:
“voglio riordinare le parole.”
“Come riordinare le parole?” chiese spazientito il padre “ma che lavoro stupido è mai questo. I lavori devono essere lavori seri. Puoi fare il Fattore, che comanda su tutti, l’Ortolano che ha sempre da mangiare o anche il Farmacista che almeno avrai sempre le pilloline blu per far felici le donne.”
La mamma invece piangeva senza sosta borbottando “che abbiamo sbagliato con questo figlio? Eppure l’altro fa l’avvocato.”
Ma non ci fu modo di convincerlo, aveva deciso, le parole erano messe nell’ordine sbagliato e lui le avrebbe riordinate.
Iniziò così fin da bambino a raccoglierle, perché prima di riordinarle devi averle altrimenti cosa riordini? Questo vale per tutto, provate voi a riordinare una biblioteca senza aver preso prima i libri o i film senza averli prima comprati (perché scaricarli era reato anche nel Reame Lontanissimo Dal Reame Vicinissimo) o… vabbè avete capito è inutile che vi faccia altri mille esempi sullo stesso concetto.
Insomma iniziò a raccoglierle. Le raccoglieva tutte, non solo quelle belle che volevano tutti, lui prendeva anche quelle brutte. Non faceva scelte, non si limitava a prendere, che ne so, le parole come “principessa” o “amore” o anche “sfigmomanometro” che seppur strana è una parola decisamente bella; no lui prendeva anche le altre come “cacca”, “puzza” e “primigi” oltre a tutta una serie di parole piuttosto comuni. Le prendeva e le metteva nel suo piccolo tascapane. La cosa strana è che anche la parola “tascapane” si trovava dentro al suo tascapane, che se ci pensate è davvero strana come cosa.
Comunque fosse passò anni e anni solo a raccoglierle senza far altro che metterle via. Ormai era diventato un po’ lo zimbello della capitale e ogni volta che entrava al Bar della piazza i vecchini che giocavano a carte si divertivano a prenderlo per il culo.
“Ivano prova a riordinarle. Un prendi mi caffè?” e tutti ridevano.
“Ivano anche queste. In po’ culo vai un.” E ancora a ridere più forte. Sì sa che nei bar di paese alcuni vecchini che giocano a carte sono un po’ stronzi.
Ma Ivano non si lasciava toccare da queste cose, apriva il suo tascapane e iniziava a metter dentro le parole “caffè”, “riordinarle” e anche “culo”. Poi chiudeva il borsino e se ne andava via.
Era già un uomo fatto, con la sua barba e la pelata… oddio in effetti già da quando aveva 15 anni aveva quell’aspetto, ma insomma ormai era grande e ancora non aveva riordinato nemmeno mezza parola.
Una sera rientrò in casa, prese il tascapane lo rovesciò completamente su un enorme tavolaccio di legno e guardando quella montagna di parole che aveva raccolto in anni esclamò:
“e ora iniziamo a riordinarle.”
Prese così a rovistare nel mucchio delle parole, le guardava, le soppesava e se gli piacevano le metteva ben in linea e attaccate su un pannello di buon legno, se invece non lo convincevano le accantonava da un lato. Però non ne buttava via nemmeno una “magari mi servirà tra un po’” e così la teneva in disparte e magari al momento giusto le riprendeva per allinearle a modino.
Andò avanti per giorni e giorni, le parole ben allineate ormai avevano riempito decine e decine di pannelli ma il mucchio da cui pescava non sembrava minimamente diminuito. La gente del paese continuava a prenderlo per il culo, con l’unica differenza che invece che attenderlo al Bar lo andavano a deridere direttamente a casa sua passandogli davanti alla finestra.
“Ivano le hai riordinate?” “me l’hai ordinato poi quel caffe?” “e in culo poi ci sei andato?” e giù le pazze risate.
Una mattina fuori dalla finestra Ivano sentì piangere. Si affacciò e chiese:
“chi è che piange?” un ragazzetto magro magro lo fissò.
“Sono io” era il figlio del Fattore.
“E perché piangi?” chiese Ivano.
“Perché sono innamorato ma lei nemmeno mi guarda perché non ho muscoli”. Ivano lo squadrò da capo a piedi, in effetti non aveva l’ombra di un muscolo nemmeno a disegnarglielo.
“Guarda che le donne non si conquistano con i muscoli ma con le poesie d’amore.”
“Ma io non conosco poesie d’amore” rispose il senzamuscoli.
“hmmm fammici pensare un attimo” Ivano si mise a rovistare nei pannelli di parole riordinate e dopo un po’ ne estrasse uno che sembrava proprio fare al caso suo. “Eccola, porta questa alla tua bella” e la diede al figlio del Fattore che dopo averla letta iniziò a piangere ancora più forte per quanto si era commosso per quella poesia. Il ragazzo diede un Bustarsizio di Fango, era la moneta del Reame Lontanissimo Dal Reame Vicinissimo, a Ivano e corse via dalla sua bella. Qualche ora dopo Ivano giurò di averlo visto insieme ad una ragazza che si abbracciavano e sbaciucchiavano passeggiando.
La sera stessa Ivano sentì bussare alla finestra, l’aprì e vide una mamma tutta preoccupata.
“Sei te Ivano il riordina parole?”
“Certo” rispose.
“Ho bisogno di te, ce l’hai una favola della buonanotte?”
“Una favola della buonanotte?”
“Esatto, mio figlio è malato e senza una buona favola non si addormenta proprio ma io non ne conosco.”
Ivano rovistò ancora tra i suoi pannelli e dopo un po’ ne tirò fuori una bellissima che parlava di draghi e di principesse da salvare. La mamma lo ringraziò e gli diede mezzo Bustarsizio di Fango.
La mattina Ivano sentì ancora bussare alla finestra, si affacciò e vide il figlio del Farmacista.
“Dimmi, che ti serve?” chiese Ivano.
“Ecco vedi, il mio babbo è sempre triste, pensa solo alle sue pilloline blu e non ride mai, non avresti una bella barzelletta o una storiella divertente da darmi?”
Ivano si mise a pensare, conoscendo il Farmacista aveva bisogno di una storiella divertente ma anche un po’ zozza. Ne aveva composta una proprio qualche giorno prima e c’erano la “cacca” il “puzzo” e diverse altre parole divertenti. La prese e la diede al ragazzo. Questi leggendola iniziò a sbellicarsi dalle risate e diede subito 2 Bustarsizi di Fango a Ivano.
Nel giro di poco la voce della bravura di Ivano, il riordina parole, si diffuse in tutto il Reame e venivano da Ovunque per comprare le sue parole riordinate. Ovunque era un paesino molto vicino alla capitale ma a volte venivano anche da più lontano. Nessuno lo prese più in giro per questo suo lavoro.
La morale in questa storia è banale, ma talmente banale che non servirebbe nemmeno dirla, ma dato che magari ho scritto una serie di fesserie preferisco dirvela io per evitare che non abbiate capito nulla della mia storia.
Primo che una poesia d’amore vale più di una favola della buona notte, ma una storia divertente, per quanto zozza, vale sempre di più.
Secondo che ciascuno di noi ha tutte le parole che vuole a disposizione ma sono in pochi a saperle riordinare a modino e che quando incontri uno che lo sa fare è bene non prenderlo per il culo.

E terzo che alla fine la mamma preferirà sempre tuo fratello avvocato.

lunedì 3 aprile 2017

L'ultimo

L'ULTIMO

Era un bell’ufficio. Elegante, mobili di legno, poltrone di pelle, senza dubbio l’ufficio che avrebbe voluto anche lui se avesse avuto senso per lui averne uno.
La segretaria lo aveva fatto accomodare subito indicandogli la sedia di fronte alla scrivania in cristallo. Adesso, seduto, fissava la grande poltrona dirigenziale vuota che si trovava dall’altro lato del tavolo. Molto probabilmente si sarebbe sentito in soggezione se non fosse stato abituato a trovarsi da quel lato delle scrivanie.
Dopo pochi minuti di attesa un distinto signore entrò e gli fece un cenno di saluto con il capo mentre ancora continuava a impartire ordini al telefono che aveva attaccato all’orecchio. Era indubbiamente un pezzo grosso di quell’azienda, lo si capiva dall’ufficio, dall’atteggiamento e da come era vestito. Un modo di fare sicuro, la voce alta e potente con un modo di parlare autoritario e incisivo. Il vestito era impeccabile, un completo di marca che probabilmente costava quanto lo stipendio di una decina di suoi sottoposti.
Lui invece aveva messo la sua “divisa d’ordinanza”, un abito che desse un’idea di curato ma che facesse chiaramente capire che era ormai un po’ vecchio e datato. Aveva tanti difetti ma non certo quello di non saper mettere a suo agio il proprio interlocutore. Sapeva che gli uomini che lo contattavano avevano il bisogno di avvertirlo come uno che non era loro pari. Uno inferiore.
Attese fermo sulla sua poltroncina mentre l’altro continuava a blaterare al telefono, abbassò anche un po’ lo sguardo fingendosi intimorito da quelle cifre che venivano snocciolate con così tanta tranquillità. Quando ebbe finito il manager lo squadrò dall’alto in basso e si lasciò cadere sulla sua grande poltrona dirigenziale.
“Allora è lei?”
“Sì” rispose mantenendo una voce bassa, sapeva che doveva mostrarsi dimesso.
“Hmm non mi sembra particolarmente in forma, è sicuro di farcela?”
“Beh sì, tanto non devo mica vincere”.
“Ahahah no, no ci mancherebbe altro” rise ad alta voce il manager “su questo ha ragione, ma non può nemmeno non farcela proprio, un minimo deve essere competitivo”.
“Ah non si preoccupi per quello, mi tengo abbastanza in forma, stia tranquillo che non la farò sfigurare”.
“Bene. Molto bene” lo guardava un po’ stupito, sicuramente si stava chiedendo come un uomo potesse abbassarsi a così tanto. Come poteva accettare un lavoro tanto umiliante? Come poteva aver rinunciato al proprio amor proprio fino a questo punto? Avrebbe di sicuro voluto chiederglielo ma non sapeva bene come porre la questione per cui si limitò a ripetere “molto bene”.
“Perfetto allora ho qua il contratto da farle firmare” tirò fuori dalla sua borsa, un po’ dimessa come lui, un foglio in due pagine e lo fece scivolare sul piano di cristallo della scrivania fino ad arrivare nelle mani del suo interlocutore.
“Un… un contratto? È previsto anche un contratto?”
“Beh, certo “sorrise “la mia è comunque una prestazione professionale”.
“Sì, certo” rispose in tono sarcastico “professionale, proprio professionale” scandì le parole nella speranza di umiliarlo. Ovviamente non lo scalfì minimamente, per chi faceva il suo lavoro ignorare il sarcasmo altrui era la regola base.
“Se vuole leggerlo con calma posso uscire”.
“No no, non si preoccupi, lo leggo e firmo subito” prese a leggere borbottando incomprensibilmente tranne alcune parti che sembravano piacergli particolarmente, “sono ammesse le offese. Interessante. Che tipo di offese?”
“Quello possiamo concordarlo, seguono la tabella A in seconda pagina. Ci sono tre categorie, le offese generiche e personali, le offese alla famiglia e infine le offese pesanti accompagnate da sputi”.
“Oh! Anche gli sputi?” chiese incuriosito.
“Sì certo. Ovviamente solo da parte di chi ha presentato regolare certificato medico che dichiari la totale assenza di malattie trasmissibili” sapeva che questa cosa piaceva a molti, non erano in tanti nel suo ambiente ad accettare gli sputi.
“Ovviamente, ovviamente” continuò a leggere “non sono in alcun caso previste le percosse. Vabbè percosse, una spinta o una pacca non vorremo considerarle percosse vero?”
“Beh in effetti sì, la legge è chiara, non deve esserci il minimo contatto fisico”.
“Ma insomma” sbottò l’uomo d’affari “che vuol dire senza contatto fisico? Una pacca sulla spalla mentre le dico che è uno stronzo mi metterebbe nei guai con la legge?”
“Purtroppo sì”.
“È assurdo, è semplicemente assurdo. Sono gesti d’amicizia, di convivialità. Possibile che non si possa fare un’eccezione?”
“Mi sta per caso chiedendo di fare qualcosa di illegale?” chiese con una voce particolare. Una voce che aveva esercitato negli anni, l’aveva limata, lavorata, arrotondata, l’aveva studiata a lungo. Era il classico tono che pareva indignato dell’offerta ma che faceva capire che c’era margine di negoziazione.
“No, figuriamoci. Non chiederei mai qualcosa di non consentito. Però ecco…” cercava di pesare le parole “una pacca e un pugno sono due cose diverse. La prima è un gesto di amicizia mentre il secondo è una percossa. Ecco vorrei tenerle ben separate”.
Lo sapeva, alla fine arrivavano tutti lì, nessuno accettava di potersi sfogare solo a parole, certo gli sputi aiutavano ad avere contratti ma era sulle percosse che si facevano i veri soldi. Ormai quell’arrogante, presuntuoso e borioso era nelle sue mani. Lo sapeva da quando era entrato in quell’ufficio così elegante e pretenzioso che avrebbe avuto il contratto ma ora sapeva anche quanto ne avrebbe ricavato. “Si può fare” si limitò a concludere.
Sulla faccia dell’uomo si aprì un gran sorriso, era convinto di aver vinto mentre si era andato a mettere proprio nelle mani di quell’uomo insignificante e dimesso che si trovava seduto di fronte a lui. “Perfetto. Assolutamente perfetto. Devo firmare in fondo vero?”.
“Sì certo, ah ovviamente dobbiamo firmare anche l’allegato del compenso”.
“Ovvio, ovvio. Ci mancherebbe” ormai tradiva l’emozione per l’affare concluso, mostrandosi così ancora più debole di fronte al suo interlocutore.
“Quindi ricapitolando: lei desidera che arrivi ultimo”.
“Ovvio”.
“Ma non troppo separato in modo che la gara sembri comunque combattuta”.
“Certo, altrimenti a che serve”.
“Presumo scelga quindi la proposta A3 per la quale all’arrivo sarete liberi di offendere me, la mia famiglia e sputarmi addosso”.
“Sì, sì proprio quella” era ormai estasiato.
“Perfetto. Fanno 200 crediti”.
“200 crediti?” urlò alzandosi dalla poltrona “è per caso impazzito! Ma si rende conto di quanti soldi sta chiedendo?”
“Beh sì, ma la mia è una prestazione professionale di altissimo livello. La sfido a trovare un altro corridore che arrivi ultimo di poco e si faccia sputare a meno di 250 crediti” li conosceva bene i prezzi della concorrenza per cui sapeva di essere competitivo “certo se si accontenta di uno che magari a metà corsa si ritira e non arriva nemmeno all’arrivo a farsi offendere sono sicuro che con 50 crediti se la caverà”.
“No, no quello no. Per carità! Però 200 crediti sono un’enormità. Alla fine la nostra è semplicemente una garetta aziendale. Tra colleghi” insisteva cercando di strappare uno sconto.
“Capisco, allora immagino che non ci siano problemi se ad arrivare ultimo sarà uno dei suoi dipendenti…” fece una pausa ad effetto “…o dei suoi dirigenti”.
“Non scherziamo” sbottò “la nostra è un’azienda solida e dai sani principi. Da noi non esistono ultimi, in 10 anni che facciamo le gare aziendali mai uno di noi è arrivato ultimo”.
“Lo capisco, ha perfettamente ragione. Fanno 200 crediti, può firmare in calce al contratto e al modulo di pagamento”.
Con il volto ancora rosso dalla rabbia firmò entrambi i fogli e li porse a quel piccolo meschino e viscido uomo che era disposto ad accettar soldi per farsi umiliare. “E per quanto riguarda l’altra cosa? I gesti di convivialità come la mettiamo?” chiese impaziente.
“Per quello sono altri 200 crediti” il manager avvampò ma prima che potesse urlare proseguì “ovviamente non trattabili, in nero, pagamento anticipato e per anticipato intendo ora” sembrava quasi trasformato, non era più il remissivo individuo entrato nell’ufficio per farsi sbranare. Era lui che conduceva la trattativa. “Ah sia chiaro, nessuna ferita permanente o vi manderò l’Ente di Controllo e Tutela”.
Si alzò e tese la mano in segno di amicizia, il manager ancora livido dalla rabbia, allungo i 200 crediti nella sua mano rifiutandosi però di stringergliela. “Se ne può andare, la data della gara la conosce”.
Se ne uscì dall’ufficio, ormai il suo passo era decisamente meno dimesso di quando era entrato. In meno di mezz’ora aveva guadagnato più di quanto la maggior parte dei dipendenti della ditta guadagnassero in 6 mesi di duro lavoro. Erano le 12:00 se faceva veloce avrebbe potuto ancora fissare altri due appuntamenti in altrettante aziende.

Maggio era un mese stupendo, tutte le aziende fissavano attività ludico sportive.

lunedì 27 marzo 2017

La mia Africa 8

LA MIA AFRICA

“Sei pronto? È arrivato Francesco a prenderci”.
“Sì Marco ci sono, ma siamo sicuri di questa cosa?”
“Boh che devo dirti, non mi pare ci sia molta scelta”.
“Beh potevamo pagare di più ma andare in aereo”.
Invece no, l’aereo Bujumbura Kigali costava troppo così avevamo deciso di affrontare il viaggio con il pulmino.
“In pulmino? Ma siete pazzi!” ci aveva chiesto un altro amico burundese.
“Pe… perché? È pericoloso?”
“Beh ci sono un sacco di banditi lungo la strada” concluse.
Se normalmente l’idea di banditi che assaltano un pulmino mi può spaventare, l’idea di essere dentro quel pulmino ed essere uno dei soli 4 bianchi al suo interno mi terrorizzava letteralmente. Però ormai era deciso, avevamo messo ai voti e aveva vinto il pulmino. Sinceramente tra un volo da 150 dollari e un pulmino da 30 con rischio banditi come cazzo fece a vincere il pulmino è una cosa che ad anni di distanza ancora mi chiedo.
“Dai però, pensa al lato positivo” mi disse Marco “una volta in Rwanda non sarò più perseguibile per la valigia e il suo contenuto”.
Già, la ricordate la famosa valigia persa che era stata data in mano a Marco e di cui ignoravamo mittente, destinatario e contenuto? Beh non era ancora saltata fuori. Eravamo tornati all’aeroporto ma non c’erano novità, gli energumeni che la cercavano non si erano fatti vivi e noi cercavamo di non farci troppe domande di cui non conoscevamo e non avremmo mai voluto conoscere la risposta. Speravamo solo che una volta in Rwanda nessuno avrebbe mai più affrontato la faccenda.
Il viaggio in pulmino iniziò di mattina presto. Caricammo i bagagli e salimmo sopra. Era uno di questi mini-bus da 15/20 persone, 4 bianchi e tutti gli altri neri, stipati come sardine. Ad onor del vero devo ammettere che non arrivarono banditi. Tranne uno. L’autista.
Ho spiegato all’inizio che in Burundi non ci sono quasi strade asfaltate e agli incroci passa chi suona più forte il clacson. Ecco al nostro autista dovevano aver detto che aveva il clacson più potente di tutta l’Africa perché partì a tavoletta senza fermarsi a nessun incrocio suonando di continuo. Usciti dalla città sperai che la parte rischiosa fosse finita, mi sbagliavo. Il Rwanda lo chiamano la Svizzera dell’Africa perché è quasi tutto montuoso per cui per raggiungerne la capitale iniziammo a salire di quota.
Ora immaginatevi un pulmino strapieno che percorre a tutta velocità una strada di montagna, senza guardrail, asfaltata male e con buche enormi disseminate ovunque. Pregai che dei briganti ci fermassero. Ovviamente anche l’autista era obbligato a rallentare ogni tanto e questo accadeva in concomitanza del raggiungere dei camion che salivano. Lungo questa strada infatti c’era anche un gran via vai di camion che in salita erano decisamente lenti sia per le dimensioni sia perché dietro ogni camion c’erano almeno 4 ragazzi in bicicletta attaccati che si facevano portare su. Questo perché lungo tutta quella strada c’è tantissima argilla e usano quelle zone per fare i mattoni.
In pratica prendono l’argilla, ne fanno dei mattoni che cuociono lì, poi caricano le biciclette con quantitativi assurdi di questi mattoni e i ragazzetti si lanciano giù per i tornanti carichi come ciuchi su biciclette senza freni (i freni sono inutili, una bici carica in quel modo di mattoni ha un’inerzia tale che probabilmente nemmeno i freni di un treno riuscirebbero a fermarla) per cui devono riuscire a raggiungere la pianura senza mai uscire di strada. Ovviamente ogni tanto c’è qualcuno che addirizza un tornante, in quel caso vanno lì, recuperano i mattoni ancora buoni, danno una sistemata alla bici e “assumono” un nuovo ragazzetto. Non credo esistano pensionati di questa categoria di lavoratori.
Comunque sia il viaggio procedeva, il pulmino sorpassava camion, schivava buche e biciclette e affrontava le curve in maniera decisamente sportiva. Non tutti gradivano tale sballottamento per cui qualcuno chiese se poteva accostare per evitare di fare del gran danno all’interno. L’autista inchiodò, guardò malissimo i passeggeri che con questa richiesta gli rovinavano il record e mandò a calci un ragazzetto fuori dal pulmino che tornò con alcuni sacchetti di plastica. L’autista li prese, li lanciò indietro verso i passeggeri e partì sgommando. Tutto questo rendeva la situazione ancora più piacevole.
In cima alla salita ci fermammo davanti a un baracchino che faceva gli spiedini per pranzo.
“Francesco ma secondo te possiamo mangiarli anche noi?” chiesi.
“Se vuoi avere la diarrea per i prossimi 2 mesi…” Marco si lanciò fuori per avere la sua razione, non era ancora riuscito a sbloccarsi, Francesco lo placcò “…più un’altra serie di malattie sconosciute, serviti pure”. Anche Marco desistette.
Mangiammo i nostri tristi ma salutari panini.
Arrivammo alla dogana tra il Burundi e il Rwanda.
“Ahahah ma guarda tutte queste persone accalcate al finestrino che vendono buste di carta” disse Marco “che cosa assurda, chi vuole comprare delle buste di carta?”
“Tutti, la plastica è proibita in Rwanda” risposero con serenità i novelli sposi.
“Come la plastica è proibita in Rwanda?” chiesi stupito.
“Sì, in pratica non vengono vendute né ci puoi introdurre buste o altro di plastica”.
“Ok, ma se io in valigia ho la roba nei sacchetti di plastica non mi dicono mica nulla vero?”
“No, no non puoi portarle”.
“Ma c’è una multa o una pena?”
“Questo non me lo ricordo”.
“Ma porca troia!” sbottai “e quando pensavate di dircelo? Possibile che la facciamo franca con una valigia misteriosa e poi ci facciamo arrestare per delle buste di plastica?” Sfido chiunque ad avere una valigia per 2 settimane di viaggio che non contenga almeno una dozzina di buste di plastica.
Vi do un consiglio, quando fate un viaggio in un paese senza estradizione controllate tutte le leggi che hanno, anche quelle che vi possono sembrare più stupide.
La dogana tra Burundi e Rwanda non è come quella tra l’Italia e la Francia per dire, o con la Svizzera che è comunque più controllata. In Burundi scendi alla dogana burundese, fai vedere il passaporto a un addetto che speri non ti chieda nulla specialmente a proposito di bagagli persi. Poi scendi lungo una stradina, attraversi un ponte e risali per un'altra stradina dove trovi la dogana del Rwanda dove speri che l’addetto non ti faccia domande su niente. Tutto questo a piedi perché il pulmino va avanti da sé.
“Ok dogana passata, si può salire sul pulmino vero? Mica lo controlleranno tutto” esclamiamo mentre gli addetti alla dogana si avviano verso il mezzo.
“Ok ma mica scaricheranno tutte le valigie” il pulmino viene completamente svuotato.
“Sì vabbè ma non apriranno di certo le singole valige” la valigia di Marie Claire e del fidanzato di Marie Claire (vi giuro si chiama così) viene aperta e vengono notate le 400 buste di plastica al suo interno. Merda.
Gliele fanno togliere tutte mescolando roba pulita e sporca.
“Il primo che parla di perquisizioni corporali lo mangio”.
“Marco se aprono la mia e tolgono la roba dalle buste mi arrestano per attentato batteriologico”.
“Già ma che possiamo farci? Le stanno aprendo tutte”.
“Razzismo Marco, razzismo” fu un lampo di genio “seguimi e fai quello che faccio io”.
“Sei sicuro?”
“Sì, anche loro sono razzisti”.
Mi avvicinai con passo sicuro al pulmino, agguantai la mia valigia e guardando negli occhi quello della dogana dissi con tranquillità in Italiano “posso metterla dentro vero?” e feci il gesto di caricarla nel bagagliaio. L’agente della dogana mi guardò e fece cenno di sì con il capo, Marco rifece esattamente la stessa cosa e salimmo a sedere. Le nostre valigie furono le uniche due non aperte. Essere bianchi aveva premiato.

martedì 28 febbraio 2017

L'operatore ecologico, il brutto male e Barbie fotografa della scuola

L'operatore ecologico, il brutto male
 e Barbie fotografa della scuola


“Eh è morto in un brutto incidente d’auto!”
Premesso che non mi vengono in mente incidenti d’auto belli devo dire che se ci è morto la possibilità che fosse bello era esclusa a priori. Eppure quasi tutti noi ci sentiamo in dovere di precisare le cose, di usare aggettivi inutili e ridondanti per spiegare cose che spesso ci fanno paura o che non sappiamo razionalizzare. “Un brutto male”, chi non ha un parente morto per un brutto male. Che è un brutto male? Esistono mali belli? Tranne forse quelli che colpiscono chi ci sta particolarmente sul culo. Non credo. Anche perché alla fine il brutto male è quasi sempre un tumore. Ma cosa ci spaventa della parola “tumore”? Il fatto che possa venire a chiunque, bambini compresi? Il fatto che alla fine, nonostante tutti i progressi sia ancora una delle cause maggiori di decessi? Non lo so, ma so che cambiare i nomi alle cose per tranquillizzarci le coscienze o per allontanare le paure è un’operazione inutile. Ha molto più senso chiamarle per quello che sono e affrontarle in quanto tali. Non è un caso che alla fine ad usare il termine tumore o cancro siano le stesse persone che lo affrontano o le associazioni che lo combattono, sono al contrario i parenti, “gli altri” a dargli nomi diversi.
Questa cosa vale per tutto, vale per le malattie, vale per i lavori che riteniamo di minor valore o vergognosi. È per questo che lo spazzino diventa prima netturbino e poi operatore ecologico, anche se magari fa lo stesso identico lavoro da 30 anni; il bidello diventa collaboratore scolastico; il bandito diventa Senatore della Repubblica.
I ciechi diventano non vedenti, salvo poi scoprire che gli stessi non vedenti hanno un’associazione che si chiama UIC che significa Unione Italiana Ciechi. Ma se loro non hanno problemi a definirsi ciechi perché noi abbiamo la necessità di definirli non vedenti?
Che poi questa ricerca di strane definizioni mi ha sempre fatto ridere, mi fa tornare in mente la barzelletta dei vecchietti in fila alle poste dove il primo chiede aiuto all’addetto dicendo che è cieco, così l’addetto gentilmente spiega che ora si dice “video leso”, il secondo chiede di parlare più forte perché è sordo e l’addetto spiega che ora si dice “audio leso”. Allora due vecchini dal fondo si alzano e chiedono “ma quindi a noi che non ci tira più l’uccello che siamo: tirolesi?”
Sentiamo il bisogno di sentirci politicamente corretti, ma senza fare troppi sforzi reali, in questo modo i negri diventano neri ma sono sempre immigrati che non vogliamo, i froci diventano gay o omosessuali ma senza diritto di sposarsi o di avere figli.
Il top l’abbiamo raggiunto con gli handicappati. Ho avuto una sorella handicappata e non ho mai avuto problemi a definire così la sua condizione, non lo trovavo né umiliante né svilente perché conoscevo il significato della parola. Nel tempo però gli handicappati sono diventati portatori di handicap, poi sono diventati disabili e infine diversamente abili. La cosa buffa è che mia sorella era rimasta sempre uguale e soprattutto le barriere architettoniche sono rimaste più o meno le stesse. Sono ragionevolmente convinto che tutti i diversamente abili del mondo sarebbero disposti ad accettare di essere chiamati con qualsiasi nome se questo consentisse loro la possibilità di vivere una vita dignitosa.

Se non sto totalmente rincoglionendo, e non mi sento di escluderlo, ricordo ancora che qualche anno fa in un negozio di giocattoli incappai in una “Barbie fotografa della scuola”. Era una barbie seduta su una sedia a rotelle con la macchina fotografica in mano. Per certi versi era un’idea carina, alla fine faceva capire che ciò che ci descrive è quello che facciamo, come ci comportiamo e non le nostre abilità, il colore della nostra pelle o le nostre preferenze sessuali. Subito dopo però, dato che viviamo dove viviamo, a pennarello avrei voluto aggiungere sulla confezione “ma solo del pian terreno perché nella scuola mancano gli ascensori e le rampe per le scale”.